Questo blog è come un diario dove troverai le mie personali recensioni sui romanzi che ho letto e le opinioni sul mondo editoriale. Niente sdolcinature ma solo critiche costruttive, come è giusto che sia ;)

27.1.12

"Resurrezione" di Lev N. Tolstòj


SCHEDA DI LETTURA
 
Trama: il principe Nechljudov rivede Katjuša, che da giovane era stata una cameriera presso le zie di N. e che l’uomo sedotte, durante un processo in cui N. è uno dei giurati e Katjuša uno degli imputati in un caso di omicidio. Katjuša è innocente, ma il suo ruolo di prostituta e un vizio di forma fa sì che venga condannata ai lavori forzati in Siberia. Nechljudov, per aiutare Katjuša e per scacciare il suo senso di colpa verso la ragazza, viene a contatto con gli ambienti più disparati: dagli uffici della giustizia in cui regna l’immoralità alle carceri in cui vivono carcerati e deportati in condizioni disumane. La resurrezione di Nechljudov sarà religiosa e rivolta ad aiutare proprio i deportati, gli umiliati, gli offesi, che sono immagini di Cristo. In questo senso si capiscono, e sono legittime, le pagine conclusive del libro, un commento di Nechljudov al capitolo XVIII del Vangelo secondo Matteo. 
L’autore: il 28 agosto 1828 nasceva nel governatorato di Tùla il conte Lev N. Tolstòj.
Nell’arco di tempo che va dal 1851 al 1874 Tolstòj si occupò esclusivamente alle sue opere letterarie di cui il suo famoso romanzo “Guerra e pace” ma anche “Quattro epoche di sviluppo”, “Felicità domestica” e “Anna Karenina” e molte altre riguardanti la sua esperienza nella guerra del Caucaso. Risalgono forse al 1876 le prime serie crisi di Tolstòj nei confronti della Chiesa ortodossa e nel 1881 si dedicò alla traduzione e al commento del Vangelo. Negli anni ’90 Tolstòj scrisse “Resurrezione” e la stesura di questo romanzo fu particolarmente laboriosa: durò circa dieci anni. Le opere più interessanti, oltre a “Resurrezione”, sono: “Padre Sergèj”, “Chadži-Muràt” e il dramma “Il cadavere vivente”. Negli ultimi anni della sua vita Tolstòj si allontanò da tutti coloro che conosceva e si sistemò in un villaggio di contadini dove il 7 Novembre 1910 morì dopo una breve malattia.
Ambientazione: la storia si svolge, alternata alla descrizione degli uffici amministrativi, all’interno delle diverse carceri in cui viene rinchiusa la protagonista. 

Personaggi più importanti:
-       Dmitrij Ivànovič Nechljudov: è il protagonista del romanzo. È un principe e, come tutti i nobili, vive nel più completo ozio ma, una volta ritrovato il suo antico amore, decide di cambiare vita e di espiare la propria colpa verso la ragazza aiutandola nella sua vita all’interno del carcere. Qui N. incontra persone  ipocrite come i funzionari ma anche persone buone condannate ingiustamente che N. cercherà di aiutare nel miglior modo possibile.
-       Katjuša Màslova: è la donna che il principe cerca di aiutare perché condannata ingiustamente. Katjuša ha avuto, nel corso della sua vita, alcuni cambiamenti morali molto significativi: da giovane era una ragazzina onesta e timida ma, una volta sedotta da Nechljudov, diviene una prostituta sfacciata e senza pudore. L’aiuto di N. la farà però riflettere sulla sua vita passata desiderando tornare come era da giovane, grazie anche all’aiuto affettuoso di Mar’ja Pàvlovna, una sua compagna di sventura.
-       Mar’ja Pàvlovna: è una donna gentile e premurosa con tutti. Diviene amica di Katjuša durante il tragitto verso la Siberia. Anch’ella è condannata ma, diversamente da Katjuša, come prigioniera politica. Il suo ruolo è importante nel ripensamento di Katjuša infatti, grazie al suo aiuto, K. rinnegherà il proprio passato di prostituta per aiutare gli altri prigionieri. 
Linguaggio: l’autore utilizza un linguaggio ricercato soprattutto nei termini utilizzati per descrivere i personaggi e i luoghi dove si svolge la storia. Inoltre, all’interno del romanzo, ci sono, oltre a una grande quantità di nomi russi di difficile pronuncia, delle frasi scritte in francese. Probabilmente l’autore voleva mettere in risalto la ricercatezza e la finezza della lingua parlata in uso all’aristocrazia russa di quel periodo. 
Messaggio: l’uomo, attraverso l’aiuto che dona agli altri, è in grado di accettare il proprio passato e di affrontare con serenità il proprio futuro. 
Giudizio: questo romanzo è molto interessante perché descrive in tutta la sua complessità il lussuoso mondo aristocratico russo contrapposto alla miseria dei poveri e dei carcerati non sempre condannati giustamente. Questo parallelo si può riscontrare anche nella psicologia dei due protagonisti: infatti il titolo “Resurrezione” non riguarda solo il cambiamento spirituale di Nechljudov ma anche il ripensamento graduale di Katjuša verso la propria vita passata.
La vicenda del processo e del tragitto verso la Siberia vengono inoltre narrati con maestria facendone risaltare tutti i lati negativi: dalla poca serietà con cui i giudici discutono il caso all’indifferenza dei carcerieri per i bisogni dei detenuti. L’autore ha quindi cercato di illustrare in modo più che esaustivo l’atmosfera di oppressione verso coloro che non erano inseriti nella categoria “cittadini modello” descrivendo, attraverso i dialoghi tra il protagonista e i funzionari della giustizia, i pensieri e le critiche della classe privilegiata verso il mondo contadino e suburbano. Tuttavia, all’interno della storia, ci sono alcune parti che risultano monotone perché ripetitive e prive di qualche effetto sorpresa come l’andirivieni del protagonista dagli uffici giudiziari alle carceri. L’andatura della narrazione è inoltre lineare, il lettore può capire in anticipo ciò che farà il protagonista: infatti non ci sono colpi di scena perché tutte le azioni sono studiate proprio per spiegare e motivare le critiche del protagonista-autore verso la società di quel tempo.
Comunque il romanzo è interessante per capire come l’autore prenda lo spunto dalla netta divisione culturale tra i ricchi e i poveri per criticare aspramente, attraverso questo romanzo, il modo di pensare dei nobili ponendosi a difesa dei poveri e dei carcerati.

22.1.12

"L'eleganza del riccio" di Muriel Barbery

I protagonisti di questo romanzo sono tre: una portinaia finta tonta che ama leggere Tolstòj, una ragazzina intelligente e saccente della serie “so tutto io”, e un ricco giapponese che ahimè spunta dal nulla da metà storia in poi. Ho scritto ahimè perché di tutti i personaggi di questo romanzo, dai protagonisti alle “macchiette” stereotipate dei vicini di casa delle due protagoniste, il giapponese è l’unico personaggio interessante. Infatti è l’unico, in questo romanzo, che non giudica ma agisce in una storia che sembra un’accozzaglia di pensieri filosofici e di critiche alla cultura chic parigina che l’autrice mette in bocca alle due protagoniste. E veniamo alle due protagoniste che, ovviamente, fingono di far parte della borghesia chic di Parigi che, forse, l’autrice non ama. Sia la portinaia che la ragazzina, infatti, recitano la loro parte all’interno del micro cosmo del palazzo in cui la storia si svolge. Entrambe criticano il modo di vivere dei loro vicini di casa astutamente caratterizzati come stereotipi viventi ovvero: la vicina elegantissima e superficiale, la ragazza amante della natura che vuole diventare veterinaria e quindi si occupa dei mici del palazzo, la sorella della protagonista studentessa universitaria finta chic che in realtà è ignorante (facendo discorsi pseudo seri che “fanno tanto chic”), i genitori della bimbetta “so tutto io” che pensano solo al lavoro o allo shopping, la domestica amica della portinaia che viene descritta come una vera “lady” in contrasto con la superficialità dei ricchi. Le vite di queste comparse sono così solo il pretesto, per l’autrice, per criticare aspramente la superficialità della cultura alto-borghese francese, in contrapposizione alla vera bellezza che si cela nelle cose semplici e di cui è il portavoce il giapponese amico delle due protagoniste.

Ecco, il fatto di criticare la cultura contemporanea lo trovo lodevole ma il modo in cui l’autrice, che ricordo essere una professoressa di filosofia, espone le sue critiche mi ha lasciato basita. Le due protagoniste infatti giudicano dall’alto in basso la loro cultura come se fossero detentori di un sapere superiore e, così facendo, non solo non riescono a scostarsi dalle macchiette stereotipate di cui sopra ma diventano esse stesse degli stereotipi. Ho trovato inoltre particolarmente irritante la caratterizzazione della ragazzina saccente e arrogante che, per fare un dispetto alla sua famiglia alto borghese stereotipata, medita il suicidio (che alla fine non compie).

In conclusione, credo che questo romanzo manchi di quella forza coinvolgente che animano i romanzi di Tolstòj, di cui si fa riferimento nel testo e che sono pura critica sociale. Infatti Tolstòj non critica mai in prima persona, tramite i propri protagonisti, la cultura russa della sua epoca ma lo fa in modo indiretto tramite le vicissitudini dei personaggi e l’accurata descrizione dei modi di pensare e d’agire dell’aristocrazia di quel tempo. Ovviamente Tolstòj è un maestro in questo e non vi è dubbio che sia arduo nell’imitare ma l’autrice, nel provarci, avrebbe apportato di certo dei miglioramenti a questo romanzo. In questo modo il lettore avrebbe potuto crearsi una propria opinione, libero di essere d’accordo o meno con il punto di vista dell’autore e non, come avviene invece in questo romanzo, limitarsi a leggere le critiche personali dell’autrice. 

10.1.12

Le origini di "Clarissa"

La storia intitolata "Clarissa" rispecchia, per quanto riguarda la protagonista, un mio scritto di dieci anni fa intitolato "Il cucciolo che diventò adulto". Ovviamente era una storia acerba e lineare con pochi personaggi e in prima persona (avevo dopotutto solo 15 anni). Salvato su floppy disc è andato perduto come l'originale cartaceo tuttavia sono riuscita a ritrovare tra i miei file un brano che ripropongo qui. In questo testo si narra della vita di una bambina nobile di nome Clarissa Loria Chactuelles. Le vicende sono pressoché banali ed è per questo che ho mantenuto, nella nuova storia, solo il personaggio di Clarissa. 





I miei ricordi si fanno nitidi da quando avevo dodici anni. Quello che ricordo con più affetto è la mia città natale, Montpellier. Una piccola cittadina borghese affacciata sul Mar Mediterraneo. La mia famiglia era benestante. Mio padre era un conte della famiglia dei Chactuelles, molto nobile per raffinatezza di usi e costumi.

Io ero poco meno di una piccola signorinella che, come tutte le bambine, desiderava che tutte le attenzioni fossero solo per lei. Ero piccola e difficilmente preferivo studiare latino, la letteratura greca e romana, musica e arte invece che giocare felicemente con le bambole. 

Un giorno la signora Regnoforst, l’insegnante di latino, non vedendomi cominciò a chiamarmi a voce alta:

- Signorina Clarissa Loria (questo è il mio nome), signorina Clarissa, signorina dove siete?

Mia sorella Sofia, che aveva quattordici anni, non si stupì per la mia assenza perché ormai tutti in famiglia, tranne i professori che avevano la testa sempre tra i libri, avevano capito che di tutte quelle discipline non me ne importava niente.

Anche Sofia dopo un po’ cominciò a chiamarmi perché era ormai da un’ora che mancavano dalle lezioni e si stava preoccupando anche lei:
- Avanti Clari vieni fuori, non ho voglia di giocare a nascondino con te. Non fare la bambina come al solito. Avanti, è quasi l’ora del the.
La mia famiglia aveva l’abitudine di fare merenda alle cinque, come gli inglesi, anche se mio padre detestava essere chiamato l’inglese di Francia.
Io ero scappata da quelle lezioni perché le temevo. Temevo le tante sgridate che mi dava la signorina Regnoforst perché sbagliavo sempre i verbi e alcuni strani nomi latini.
Ero andata quel pomeriggio al bel laghetto del nostro parco. Volevo vedere i pesci che sguazzavano liberi e felici, le farfalle che mi facevano il solletico e i fiori tricolori che attiravano le api per i loro colori sgargianti. Era tutto meraviglioso in quel caldo pomeriggio estivo. Ero immersa nei canti degli uccelli, non paragonabili allo stridere della signorina Regnoforst. Sentivo il dolce flusso della corrente del laghetto, il soffio del vento simile per me ad un canto di un angelo…le cose cominciarono a sfocarsi fino a divenire un tutt’uno. 
Sentii una folata più forte proveniente dagli alberi di fronte a me. Mi svegliai e sentii le grida disperate della signorina Regnoforst. Capii che era vicina quindi mi alzai e corsi verso la parte opposta da dove provenivano le urla. Non volevo essere scoperta, non quel pomeriggio almeno. Corsi. Corsi affannosamente per le colline del parco. Mi fermai. Non sentii più le grida della signorina, forse l’avevo seminata. Tesi l’orecchio. Niente, solo qualche canto d’uccello. Ero finita in mezzo ad una fitta pineta. 
Non conoscevo quel luogo, non ricordavo di esserci mai stata…sì mi ero persa. Cominciai a gironzolare in giro in cerca dei passi che avevo fatto per arrivare lì. Non c’era traccia di impronte perché c’erano foglie secche, aghi di pino e non la nuda terra. Cominciai ad innervosirmi. Gridai aiuto perché era l’unica possibilità che qualcuno mi sentisse. Era una cosa sciocca per me: io, Clarissa Loria Chactuelles, mi ero persa. Era l’ora del the e pensai a mia sorella che si stava godendo del buon the con qualche biscottino.
Sentii d’un tratto un fruscio. Mi acquattai dietro ad un piccolo arbusto, stetti ad ascoltare. Erano passi…una voce maschile, da ragazzo, disse:
- Chi c’è qui? Ho sentito delle urla, c’è qualcuno qui?
Saltai fuori. Era Carlos, un bel ragazzo di quattordici anni che lavorava per la nostra famiglia prendendosi cura dei nostri cavalli.
- Carlos, dissi, meno male che mi hai sentito.
Lui rispose:
- Oh, siete voi signorina Clarissa. Vi stanno cercando,
disse ascoltando le urla di mia sorella e quelle della signorina Regnoforst in lontananza.
- Eh già Carlos…, diventai tutta rossa e lui cercò di trattenere le risa.
- Siete così buffa, chiedere aiuto quando le urla dei vostri familiari si sentono fino al paese!
- Non volevo essere aiutata da loro… - Perché no?, mi chiese lui.
Cominciai così a raccontargli tutto quello che era successo e alla fine scoppiò a ridere mentre io ero diventata rossa per la vergogna.
Alla fine però mi riportò al laghetto congedandosi da me con un bacio sulla guancia che mi parve come una provocazione. Lo lasciai e ritornai a casa.
Mi sgridarono più volte soprattutto mia madre dicendomi che dovevo seguire le lezioni per il mio bene e che la signorina Regnoforst era stata molto in pensiero per me tanto che aveva avuto una crisi di nervi. Da quel giorno infatti non la vidi più spesso. Mio padre era in un angolo a fumare la pipa in modo assente senza accorgersi che ero tornata a casa. Quando finì la ramanzina era già ora di cena. Quella cena fu un vero e proprio mortorio. Nessuno parlava e tutti pensavano ai propri affari: mio padre a mangiare, mia madre a tenermi d’occhio nel caso in cui scappassi dalla finestra del terzo piano, Sofia ai suoi affari di cuore con un ragazzino nobile che si dava troppe arie ed io a cercare di capire che cosa pensassero.
Mio padre era piuttosto severo con me e mia sorella. Voleva che diventassimo delle bravi mogli un giorno ma ormai si era arreso con me, sperava solo che non diventassi un maschiaccio. Era però anche molto buono e spesso ci raccontava qualche vecchia storiella sull’origine della nostra prestigiosa famiglia quando noi ragazze lo stuzzicavamo.
Nostro padre ci raccontò una leggenda molto carina sulle origini dei Chactuelles ancora quando avevo dodici anni ma continuò a raccontarcela più volte in seguito. 

Un ragazzo che aveva quasi sedici anni, iniziò a raccontare mio padre, non sapeva come racimolare soldi. Era povero e ad ogni persona che si avvicinava gli chiedeva degli spiccioli. Un giorno un vecchio signorotto gli passò vicino e, Gioacchino, così si chiamava, gli chiese degli spiccioli. L’uomo gli diede tre denari, molto per un povero! Gioacchino era felice e lo ringraziò con molte riverenze. Sapeva però che bastava solo per comprare qualche pezzo di pane e il giorno seguente sarebbe ritornato di nuovo al verde. Allora sapete che cosa ha fatto?, ci chiese nostro padre guardandoci sorridendo, Gioacchino non li spese per il pezzo di pane ma si giocò i tre denari che aveva facendo una scommessa con un suo amico che ne aveva sedici. Gli propose che chi avesse corteggiato una signorina nobile e fosse riuscito a farla ridere avrebbe vinto tutti i denari. L’amico accettò. Il giorno dopo si ritrovarono al posto stabilito e aspettarono che passasse una signorina lungo la via. Le ore passavano inutilmente ma, ad un certo punto, ecco spuntare una signorina ben vestita, elegante, che passeggiava con aria non curante. L’amico si propose subito e iniziò a parlargli come un gentiluomo ma fu inutile, la ragazza non lo ascoltava. Gioacchino allora si inchinò davanti a lei e iniziò a parlarle anch’esso come un gentiluomo e le raccontò una barzelletta molto sciocca. La ragazzina dapprima non lo guardò ma poi cominciò ad ascoltarlo e alla fine iniziò a ridere divertita. Gioacchino vinse la scommessa. L’amico restò di stucco e se ne andò a mani vuote. Quando Gioacchino non lo vide più disse alla ragazza:
- Grazie Marika sei una vera amica. Ma dove hai trovato questi bei vestiti?
Lei rispose:
- Mio caro, ogni ragazza ha i suoi segreti, che sia nobile o povera.
Gioacchino diventò presto ricco perché comprò un piccolo locale con i diciannove denari e grazie anche a Marika divenne un prestigioso locale per nobili. Naturalmente ridiede al suo amico tutti i sedici denari inoltre cambiò il suo cognome e si fece chiamare Gioacchino Chactulles, il nostro trisavolo.
Questa storiella diventò col tempo molto noiosa perché mio padre raccontava queste assurde storielle solo per avere un po’ di attenzione per sé. Certe volte era peggio di me e le raccontava in ogni occasione.
L’estate era appena iniziata e spesso andavo con Sofia al laghetto, a cavallo o a piedi. Era bello. Sofia era una ragazza molto più saggia di me e sapeva sempre la risposta a tutte le domande che le facevo. Era bella: aveva i capelli castani e lisci, gli occhi verde acqua ed era alta e magra. Ogni ragazzo di Montpellier la sognava, anche Carlos. 

Un giorno, verso pomeriggio, io e Sofia cavalcavamo felici lungo le vallate di alcune piccole colline. Stavamo parlando di fiori e di piante:

- Lo sai Clarissa che i fiori sono i migliori amici delle ragazze?

- Davvero?!, le dissi con sorpresa.

- Già, si vede che tu sei ancora piccola, non puoi capire certe cose.
- Certo che le posso capire, dissi fermando di botto il cavallo. Lei sorrise e continuò:
- Non fare l’orgogliosa, hai solo dodici anni. Non puoi capire quello che ti sto dicendo.
- Non è difficile capire che per te i fiori sono importanti ma per me sono solo belli e profumati tutto qui. 
- Ah Clarissa, Clarissa…, mi disse in tono ironico per troncare la conversazione.
Continuammo così a galoppare fino alla stalla dove le chiesi:
- Sofia, c’era qualcosa che legava i fiori con qualcos’altro?
- Vedi Clari ogni giorno è un giorno nuovo in cui puoi cambiare il percorso del tuo destino. Tu sei libera come un uccellino, devi solo stare attenta a non incappare nei rovi ricordatelo.
Quello che mi disse mi sembrò allora così semplice ma anche così difficile.
Le estati corsero via come gli autunni, gli inverni tristi e le primavere gioiose. Avevo ora compiuto quattordici anni ed ero diventata una brava ragazza che seguiva le lezioni e spesso cantavo e suonavo l’arpa, uno strumento che mi piaceva molto, accompagnata dal pianoforte che Sofia era brava a suonare. Spesso facevamo dei duetti che piacevano molto ai nostri genitori.

Un giorno dei baroni di una vicina cittadina ci invitarono ad una caccia alla volpe. Non mi entusiasmò l’idea di vedere un animale così agile, fiero e furbo venire ucciso in modo brutale ma ci andai costretta da mio padre che amava molto questo tipo di ritrovi.
Salimmo così in una carrozza antica, forse appartenuta al nostro trisavolo Gioacchino. Il castello di questi baroni non era molto lontano dalla nostra villa. La nostra si affacciava sul mare mentre i baroni abitavano in una altura. Arrivammo accompagnati dai nostri servitori, compreso Carlos, che ci seguirono a cavallo fino al castello. Mi parve immenso. Salimmo delle rampe di scale che ci portarono all’ingresso. Da lì si poteva scorgere la linea del mare all’orizzonte, tutto intorno il silenzio come un quadro dove appaiono colline verdi, il mare blu e l’infinito cielo sgombro da nubi. Mi accorsi che solo io contemplavo quel meraviglioso spettacolo e, sinceramente, mi vergognai molto quando mi chiamarono perché ero rimasta indietro. 
Non ero più vivace come una volta. Ero diventata sentimentale e ogni sciocchezza che facevo a dodici anni ora non pensavo minimamente di rifare. Volevo però ritornare ad essere quella di una volta: spiritosa, vivace, sincera e menefreghista dei grandi e dei loro noiosi balli e feste a cui la nostra famiglia non si sottraeva. Rattristata per la gioventù passata e che ormai non potevo più rivivere entrai in quella grande casa che profumava di misteri e nascondeva la tristezza di essere nobili. 
Si aprì il grande portone ed entrammo. Ci accolsero dame e cortigiani, nobili e sguattere. Quest’ultime ci indicarono le nostre stanze perché saremmo rimasti per qualche giorno. La mia era bella però, quando guardavo fuori, non c’era il mare ma solo alberi. Presa dalla nostalgia di casa corsi fuori e andai in atrio. Lì c’era ancora qualche nostro servitore che chiedeva degli ordini. Lì trovai anche Carlos, corsi da lui e gli chiesi:
- Cosa fai ancora qui?
- Sto aspettando ordini. Voi cosa ci fate qui? Vostra sorella Sofia, vostra madre e vostro padre vi stanno aspettando in salotto. Non restate qui, andate.
- Non voglio andarci, di sicuro avranno iniziato a parlare di caccia perché è questo il motivo per cui siamo qui. Anche tu parteciperai alla caccia alla volpe?
- Sì ma solo come sostegno.
A queste parole fui quasi emozionata al pensiero che ci sarebbe stato anche lui. Ora tutto era diverso. Gli dissi: - Va bene Carlos, ci vediamo in giardino.  - Venite anche voi? Credevo che alle dame non fosse concesso parteciparvi.
Ci rimasi male alle sue parole perché per lui ero solo una fragile ragazza tuttavia fui felice nel constatare che mi considerava una dama. Ero importante per lui e quindi non voleva che mi capitasse qualcosa durante la caccia. Capii in quel momento anche il bacio che mi diede al laghetto anni prima. Diventai subito rossa e mi allontanai da lui per visitare il castello.
Il castello era grande ma ben presto persi la voglia di visitarlo. Ritornando nella mia stanza mi accorsi che qualcuno mi aveva seguito.
- Salve signorina Clarissa Loria Chactuelles.
- Chi siete?, dissi voltandomi verso la voce.
Era un ragazzino lentiggnoso, robusto, molto più alto di me e vestito elegantemente.
- Sono Jack Man Lousser
- Come sapete il mio nome?
- Molti nobili parlano di voi signorina
- Davvero?
Ormai non mi interessava più parlargli. Mi stava antipatico soprattutto per i suoi modi.
- Naturalmente, se volete facciamo un giro per il castello signorina?!
- Oh no, sono stanca e i miei genitori mi stanno aspettando in salotto. Piacere di averla conosciuta sir Jack.
- Il piacere è tutto mio. 
Mi allontanai alla svelta da lui e andai in salotto. 
Qui mio padre aveva appena iniziato a parlare di caccia (cosa che odio) con il barone e quando si accorse che ero entrata mi presentò al padrone di casa dicendo nome, età e ogni pregio che avessi. Alla fine perse interesse nel parlare di me ma il barone continuò:
- Siete molto bella signorina Clarissa!
- Grazie, dissi inchinandomi distrattamente.
-Vostra sorella Sofia non vi batte di certo!Mi disse guardando Sofia che leggeva un libro trovato nella valigia. Gli sorrisi ma il barone mi guardò di stiscio ricominciando a parlare con mio padre; forse gli avevo fatto una brutta impressione con quel sorriso stralunato.  Mi congedai e andai in giardino, dovevo prendere una boccata d'aria, quel castello mi sembrava una prigione. Arrivò il giorno successivo, tutti erano già a mangiare in un gigantesco salone abbellito con enormi dipinti alle pareti e con un interminabile tavolo al centro. Ero, come al solito, l'ultima. Feci una corsa ma sbagliai più di una volta la stanza: mi ero persa di nuovo!  [...]