I protagonisti di questo romanzo sono tre: una portinaia
finta tonta che ama leggere Tolstòj, una ragazzina intelligente e saccente
della serie “so tutto io”, e un ricco giapponese che ahimè spunta dal nulla da
metà storia in poi. Ho scritto ahimè perché di tutti i personaggi di questo
romanzo, dai protagonisti alle “macchiette” stereotipate dei vicini di casa
delle due protagoniste, il giapponese è l’unico personaggio interessante.
Infatti è l’unico, in questo romanzo, che non giudica ma agisce in una storia che
sembra un’accozzaglia di pensieri filosofici e di critiche alla cultura chic
parigina che l’autrice mette in bocca alle due protagoniste. E veniamo alle due
protagoniste che, ovviamente, fingono di far parte della borghesia chic di
Parigi che, forse, l’autrice non ama. Sia la portinaia che la ragazzina,
infatti, recitano la loro parte all’interno del micro cosmo del palazzo in cui
la storia si svolge. Entrambe criticano il modo di vivere dei loro vicini di
casa astutamente caratterizzati come stereotipi viventi ovvero: la vicina
elegantissima e superficiale, la ragazza amante della natura che vuole
diventare veterinaria e quindi si occupa dei mici del palazzo, la sorella della
protagonista studentessa universitaria finta chic che in realtà è ignorante (facendo discorsi pseudo seri che “fanno tanto
chic”), i genitori della bimbetta “so tutto io” che pensano solo al lavoro o
allo shopping, la domestica amica della portinaia che viene descritta come una
vera “lady” in contrasto con la superficialità dei ricchi. Le vite di queste
comparse sono così solo il pretesto, per l’autrice, per criticare aspramente la
superficialità della cultura alto-borghese francese, in contrapposizione alla
vera bellezza che si cela nelle cose semplici e di cui è il portavoce il
giapponese amico delle due protagoniste.
Ecco, il fatto di criticare la cultura contemporanea lo
trovo lodevole ma il modo in cui l’autrice, che ricordo essere una professoressa
di filosofia, espone le sue critiche mi ha lasciato basita. Le due protagoniste
infatti giudicano dall’alto in basso la loro cultura come se fossero detentori
di un sapere superiore e, così facendo, non solo non riescono a scostarsi dalle
macchiette stereotipate di cui sopra ma diventano esse stesse degli stereotipi.
Ho trovato inoltre particolarmente irritante la caratterizzazione della
ragazzina saccente e arrogante che, per fare un dispetto alla sua famiglia alto
borghese stereotipata, medita il suicidio (che alla fine non compie).
In conclusione, credo che questo romanzo manchi di quella
forza coinvolgente che animano i romanzi di Tolstòj, di cui si fa riferimento
nel testo e che sono pura critica sociale. Infatti Tolstòj non critica mai in
prima persona, tramite i propri protagonisti, la cultura russa della sua epoca
ma lo fa in modo indiretto tramite le vicissitudini dei personaggi e l’accurata
descrizione dei modi di pensare e d’agire dell’aristocrazia di quel tempo.
Ovviamente Tolstòj è un maestro in questo e non vi è dubbio che sia arduo
nell’imitare ma l’autrice, nel provarci, avrebbe apportato di certo dei
miglioramenti a questo romanzo. In questo modo il lettore avrebbe potuto
crearsi una propria opinione, libero di essere d’accordo o meno con il punto di
vista dell’autore e non, come avviene invece in questo romanzo, limitarsi a
leggere le critiche personali dell’autrice.
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